
Mai sentito parlare del Toro Farnese?
Monelli birichini, lo so cosa avete pensato!
Via quei sorrisi maliziosi, non stiamo parlando di quello che immaginate.
Nessuna idea? Allora allarghiamo il campo, il nome Farnese vi dice niente?
Vedo che qualcuno, timidamente, alza la mano ma siete ancora troppo pochi.
Papa…, giù le mani, non mi riferisco a Sua Santità Leone XIV!
Dicevo: Papa… Paolo III, nato Alessandro Farnese, vi fornisce qualche indizio in più? A qualcuno sembra di sì ma allarghiamo ancora il campo aggiungendo tempo e luogo.
Siamo a Roma, anno 1534, il cardinale Alessandro Farnese al settimo conclave a cui partecipa, dopo aver visto l’elezione di Pio III Piccolomini, Giulio II Della Rovere, Leone X de’ Medici, Adriano VI di Utrecht, Clemente VII de’ Medici viene eletto papa egli stesso con il nome di Paolo III, aveva 66 anni.
Tiziano Vecellio - Ritratto di Papa Paolo III con il camauro - Museo di Capodimonte - Napoli
La sua vita fu un’ininterrotta sequenza di azioni spregiudicate e realizzazione di grandi opere, quello che ci interessa qui è la sua figura di mecenate. Ancora prima di diventare papa, Alessandro aveva dato inizio alla collezione d’arte ancora oggi chiamata Farnese,
Raffaello Sanzio – Ritratto del cardinale Alessandro Farnese, futuro Papa Paolo III - Museo di Capodimonte - Napoli
durante il suo pontificato fece costruire la Cappella Paolina e diede il via per l’inizio della costruzione della Scala Regia, chiamò Michelangelo Buonarroti a dipingere il Giudizio Universale nella Cappella Sistina e gli affidò la sistemazione della Piazza del Campidoglio.
Piazza del Campidoglio - Roma
La collezione Farnese iniziata da Alessandro continuò ad arricchirsi nei due secoli successivi anche grazie alla stessa passione dei discendenti di Paolo III che aveva avuto quattro figli due dei quali legittimati da Leone X e Giulio II.
Guglielmo della Porta - Busto di Paolo III in marmo e alabastro - Museo di Capodimonte - Napoli
I dipinti furono ricollocati presso il ducato di Parma e Piacenza assegnato al figlio di Paolo III, Pier Luigi Farnese, e ai suoi discendenti fino a quando la collezione non giunse nelle mani di Elisabetta Farnese, ultima discendente del casato, e da lei al figlio Carlo di Borbone. Nel 1788 Ferdinando I delle Due Sicilie ne predispose il trasferimento nella sua capitale insieme alla collezione archeologica e al resto dei dipinti che ancora si trovavano a Palazzo Farnese a Roma.
Torniamo un attimo al pontificato di Paolo III, nel 1545 per procurare materiali pregiati da utilizzare nella costruzione della basilica di San Pietro fu dato il via ad una campagna di scavi alle terme di Caracalla con il ritrovamento di alcuni reperti considerati capolavori assoluti dell’arte classica: l’Ercole Latino oggi esposto nella Reggia di Caserta,
l’Ercole Farnese
e Il Supplizio di Dirce, noto come il Toro Farnese, esposti al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Se andate al MANN nella sezione dedicata alla collezione Farnese in una sala occupata quasi interamente da due enormi statue vi trovate davanti prima l’Ercole Farnese,
un gigante di 3 metri e diciassette centimetri copia di un originale bronzeo di Lisippo ad opera di Glicone, scultore ateniese del II secolo d.C.
Ercole è in una posa rilassata, ha finito le sue dodici fatiche e si appoggia stancamente alla clava ricoperta dalla pelle del leone di Nemea
mentre nella mano destra, dietro la schiena, tiene i pomi d’oro rubati alle Esperidi, le custodi del giardino dei pomi d’oro di Era.
Dopo aver girato intorno ad Ercole e averlo fotografato da ogni angolo, per avere un’idea di quanto sia grande si consiglia di farsi fare una foto accanto al colosso, dirigete lo sguardo verso l’altra metà della sala interamente occupata dalla più grande scultura singola mai recuperata dall’antichità.
La data e l’autore di questa enorme massa di marmo di 24 tonnellate sono incerti, Plinio il Vecchio la attribuisce a Apollonio di Tralle e a suo fratello Taurisco, secondo Plinio la scultura fu commissionata alla fine del II sec a.C. e scolpita in un unico blocco di marmo poi fu trasferita a Roma, studi più recenti collocano la scultura del Mann nel III secolo d.C., una copia romana della scultura di Rodi fatta realizzare appositamente per le Terme di Caracalla.
Il gruppo marmoreo racconta il mito di Antiope.
Secondo Omero Antiope era figlia di una divinità fluviale, secondo altri era la figlia di Nitteo, re di Tebe.
La fanciulla amava cavalcare e andare a caccia, un giorno si reca sul Monte Citerone, vicino a Tebe consacrato al culto di Zeus, Era, Dionisio e Ares, quando fu sorpresa da un temporale. Per sfuggire alla tempesta si rifugia in una grotta perdendo di vista il suo seguito. Stanca, la principessa si addormenta, le si avvicina un satiro, una creatura mitologica metà uomo e metà capra ma in realtà si tratta di Zeus travestito che fa l’amore con lei.
Dopo qualche tempo Antiope si accorge di essere incinta e quando non riesce più a nascondere la gravidanza fugge da Tebe dove lascia un padre e lo zio, suo promesso sposo, infuriati con lei perché non credono che il padre del bambino possa essere una divinità. Lico, lo zio, sposa un’altra donna, Dirce, figlia di Ismeno intanto Antiope vaga nei dintorni del Citerone fino a quando giunge nella città di Sicione dove viene accolta dal re Epopeo che si innamora di lei. Nitteo, il padre di Antiope, dopo aver più volte chiesto la restituzione a Epopeo della figlia, muore lasciando il trono al fratello Lico facendogli giurare che vendicherà la grave offesa.
Flauto di Pan
Lico dichiara guerra ad Epopeo, lo uccide, conquista la città e porta via la nipote in catene. Antiope, ormai prossima al parto, riesce ad ottenere di rifugiarsi in una grotta dove dà alla luce due gemelli maschi, per ordine di Lico deve abbandonare i bambini ma riesce ad affidarli ad un pastore che si prenderà cura di loro. L’improvvisato genitore, dopo averli lavati nella pozza cristallina che Zeus aveva fatto zampillare davanti alla grotta, chiama i due gemelli Anfione e Zeto. Antiope, intanto, riportata a Tebe, diventa la schiava di Dirce che, gelosa della passione che secondo lei il marito nutre ancora per la nipote, dopo averla vessata in tutti i modi che le riescono, la fa rinchiudere in un carcere sotterraneo.
Non si sa come Antiope riesca a fuggire dal carcere, qualcuno dice grazie al miracoloso sciogliersi delle catene che la tenevano legata per un probabile intervento di Zeus, e raggiungere il monte Citerone per cercare i figli. Contemporaneamente anche Dirce si reca sullo stesso monte per prendere parte a una festa in onore di Dionisio, riconosce la nipote del marito e ordina a due pastori di incatenarla alle corna di un toro infuriato assicurandosi così la sua morte. I due pastori, che altri non erano che Anfione e Zeto, riconoscendo la madre infliggono a Dirce la stessa sorte che lei aveva destinato ad Antiope.
Il mito ha differenti versioni a seconda dello scrittore che l’ha tramandato, una di queste è stata raccontata dal tragediografo latino Marco Pacuvio che aveva tratto la sua opera dalla tragedia originale in greco di Euripide. Lo stesso Cicerone afferma che la versione di Pacuvio era molto vicino all’originale di Euripide anche se in un altro testo sconfessa quello che aveva dichiarato affermando che Pacuvio non aveva tradotto dal greco parola per parola ma solo il senso per parlare della forza dei Greci.
Quale che sia la versione originale e quelle che di volta in volta l’hanno arricchita o trasformata, come sulla fine che fanno Antiope e i suoi figli, per qualcuno la donna, condannata alla pazzia da Dionisio per vendicare la morte di Dirce sua sacerdotessa, viene guarita da Foco e diviene poi sua moglie mentre i gemelli fondano Tebe o forse ne rinforzano le fortificazioni o costruiscono la città bassa, in definitiva è un mito complesso che si presta a molteplici interpretazioni a seconda della versione che si predilige ma a noi interessa il momento immortalato nel Toro Farnese.
Intanto qualche numero, il gruppo scultoreo realizzato in un blocco di marmo dallo spigolo lungo 3 m, è alto 3,70 m e pesa 24 tonnellate. Si suppone che l’intera scultura sia stata ricavata da un unico blocco che si meriterà il nome di montagna di marmo.
Quando Ferdinando lo volle a Napoli fu inviata una feluca che risalì il Tevere fino all’approdo di Ripa Grande, giunta la nave al porto di Mergellina la colossale scultura fu scortata dalle truppe dell’esercito fino a Villa Reale a Chiaia e poi spostata nuovamente per giungere finalmente al MANN
Museo di Capodimonte, fatto costruire a partire dal 1738 da Carlo di Borbone per accogliere la collezione Farnese
La scultura è incentrata sul toro furioso che scalpita cercando di liberarsi mentre Anfione lo trattiene per le corna e Zeto con una corda tra le mani alla quale assicurare Dirce che seduta tra le zampe scalpitanti del toro cerca di impietosire Anfione, in disparte, sullo sfondo, quasi un’apparizione, Antiope che osserva la scena con in mano una lancia
La furia senza controllo del toro è quello che colpisce più di ogni altra cosa, sembra di vedere il respiro rovente che esce dalle froge sbuffanti, la torsione del collo al quale è sottoposto dalla forza dei due fratelli non toglie nulla alla sua ferocia e all’impressione di quello che potrebbe succedere se si dovesse liberare.
La muscolatura possente con la coda che frusta l’aria parlano di un essere nel pieno delle proprie forza e potenza, l’animale poggia sulle due zampe posteriori mentre con quelle anteriori scalcia per aria cercando di ribellarsi alla cattura.
I due fratelli lo fiancheggiano, nudi entrambi hanno solo una sorta di mantello che svolazza sulle loro spalle, Anfione in bilico su due rocce, le gambe divaricate, la muscolatura tesa con il corpo che si contorce per contrastare gli sforzi del toro,
Zeto, i piedi ben piantati sulla roccia che riproduce la natura selvaggia del Citerone con una torsione del busto che esalta i fasci muscolari e il capo ricoperto da una capigliatura di folti riccioli identici a quelli del gemello, in mano una fune che intende legare ai capelli di Dirce. Zeto indossa una spada sul fianco sinistro mentre è di Anfione la lira appoggiata al tronco di un albero.
Sotto i piedi del toro scalpitante siede Dirce, le gambe e la parte inferiore del busto avvolti da una veste che sale fino alle spalle e ricade a sfiorare un seno, al collo la pelle di una capra, il torso e il ventre sono scoperti, un braccio alzato per ripararsi dagli zoccoli micidiali che la sovrastano mentre con lo sguardo cerca Anfione e con l’altra mano si aggrappa al polpaccio del giovane per implorare la sua pietà, pietà che lei non aveva mai dimostrato ad Antiope.
Ai piedi dei protagonisti la natura del Citerone, arbusti, alberi, fronde, cespugli, ammassi rocciosi, spuntoni di rocce che sorreggono animali che lottano tra di loro o che osservano con interesse la scena come il cane in primo piano ritto sulle zampe posteriori che alza la testa ad abbaiare al toro, con la coda frangiata che si muove.
Accanto al cane un fanciullo, forse il pastore che ha portato i due gemelli al riconoscimento della madre, che osserva la scena, indossa un abito corto al ginocchio decorato con tralci di edera, seduto su un masso con una mano sostiene il corpo leggermente sbilanciato all’indietro mentre con l’altro braccio punta su un tronco con il gomito.
Tra il cane e la veste di Dirce c’è un cesto fittamente intrecciato, decorato con foglie di edera e chiuso da un coperchio,
in un anfratto si nasconde un cinghiale,
più a destra un altro cane sembra quasi ringhiare,
e poi c’è un’aquila che sembra abbia afferrato un serpente che ancora si divincola nonostante gli artigli del rapace gli arpionino il cranio.
L’unica parte che si stacca dalla violenza della scena centrale è quella posteriore, un angolo dove anche la roccia non presenta asperità e gibbosità, niente predatori all’assalto, solo due cervidi uno che forse beve a una fonte che sgorga dal suolo e l’altro che bruca le foglie di un albero,
sopra si stacca Antiope, un leggero chitone legato alla vita ricco di pieghe che la avvolge tutta lasciando però intravedere il corpo come se fosse di finissimo lino o di velo trasparente, si intravvedono i seni e l’incavo dell’ombelico.
La donna osserva la scena ma non ne è turbata, in una mano ha una lancia ma appena ritrovata aveva un sistro, poi durante i lavori del lungo restauro ci furono delle licenze poetiche nella ricostruzione del gruppo che risultava frammentato in più parti come si può vedere ancora da alcune fratture che non è stato possibile ricomporre. L’altra mano è aperta e sembra indicare il toro e i due figli ma non c’è tensione nel movimento, anche i piedi uno leggermente più avanti dell’altro un ginocchio appena sollevato più che un inizio di movimento sembra suggerire un momento di riposo.
Quando i visitatori si trovano al cospetto del toro Farnese hanno bisogno di un po’ di tempo per cogliere la dinamica delle sculture, i legami tra una figura e l’altra, i particolari che trasformano il marmo in un paesaggio boscoso arrampicato sulle pendici di un monte poi, mentre si allontanano voltandosi ancora indietro per ammirare ancora e cogliere il capolavoro nella sua interezza ci si rende conto che oltre all’ammirazione c’è un po’ di amaro che rimane in bocca.
Se non si conosce il mito di Antiope rimane dentro la tristezza per quella violenza perpetrata da due giovani uomini ai danni di una donna, se si conosce la storia di Antiope e di Dirce l’amarezza è doppia perché alla cattiveria di Dirce i figli di Antiope rispondono con altrettanta ferocia e quindi alla fine la brutalità non è quella del toro che scalcia furioso nel tentativo di liberarsi ma quella degli esseri umani che in modo o nell’altro infieriscono sui loro simili più deboli così come fa Dirce nei confronti dell’innocente Antiope già violentata da una divinità sotto mentite spoglie e come fanno Anfione e Zeto nei confronti di Dirce ritorcendo contro la regina di Tebe la stessa sorte che lei voleva per Antiope e la figura di questa donna, così maltrattata dal volere di uomini e dei, emerge in tutta la sua bellezza, unica vittima che in mente non ha la vendetta ma solo il desiderio di proteggere i propri figli prima durante la gravidanza quando scappa dal palazzo del padre poi quando scappa dalla prigionia di Dirce con l’unico obiettivo di ritrovare Anfione e Zeto.